14/11/2024 - La Cultura Marinaresca
Articolo di Carlo Romeo (giornalista, scrittore e direttore della rivista "Lega Navale")
Squilla il telefono che è quasi l’alba alla Finca Vigia mentre a Stoccolma sono già le undici di mattina. È il 28 ottobre del 1954 – settant’anni fa, dunque – quando una voce emozionata comunica a Ernest Hemingway che ha appena vinto il Premio Nobel per la Letteratura grazie a Il vecchio e il mare.
Hemingway, a Cuba, sta vivendo in quel periodo l’ennesimo momento difficile. La sua carriera di scrittore ha sempre avuto alti e bassi, anche se non è mai stata sottovalutata, da quando decise a Parigi negli Anni 20 di smettere con il giornalismo e fare il salto nel buio che lo portò dagli articoli ai romanzi.
Il suo ultimo romanzo, prima della storia del vecchio pescatore e del gigantesco pesce, non aveva avuto il successo sperato. Di là dal fiume e tra gli alberi, uscito nel 1950, era stato infatti preso di mira dalla critica. La cosa comprensibilmente non aveva fatto piacere allo scrittore. Quel romanzo verrà riscoperto molto più tardi come il bellissimo libro che è, con il vecchio soldato di carriera che chiude i conti con la sua vita, attraverso la passione ricambiata per una giovanissima nobildonna veneziana, incontrata mentre corteggia la propria gioventù e la altrettanto propria morte a Venezia.
In quei mesi, Ernest Hemingway è per di più ancora convalescente. I due brutti incidenti aerei capitatigli uno dopo l’altro in Africa, proprio all’inizio di quell’anno, lo hanno provato molto sia fisicamente sia psicologicamente. Insomma, per uno degli scrittori più amati e più odiati del secolo, questo 1954 non è esattamente un anno cominciato benissimo. A maggio, su un campo minato in Indocina, muore Robert Capa, inviato di guerra al seguito delle truppe francesi. Questa scomparsa sarà un altro brutto colpo per lo scrittore, legato al fotoreporter ungherese da una antica e solida amicizia.
Quelli precedenti al 1954 sono anni in cui Hemingway comincia a rinchiudersi sempre di più in se stesso mentre forse già intravede quella depressione che lo ucciderà una decina di anni dopo. Siamo dunque nel 1950 quando lo cerca Life. È una rivista cui è molto legato, non soltanto perché paga bene, cosa che per lui che ha fatto letteralmente la fame da giovane a Parigi, conta sempre parecchio. Life gli chiede un racconto lungo o un romanzo breve – che poi è lo stesso – da pubblicare a puntate sulla rivista. Allora Hemingway comincia a rimuginare su una vecchia storia cubana, sentita in una delle tante serate passate al Floridita, bicchiere e bottiglia alla mano.
Quella storia di un vecchio pescatore che ha vissuto tutta la sua vita sull’Atlantico diventerà la storia per Life. Vecchiaia e mare ma anche solitudine e poi ancora amicizia perché un giovanissimo amico, cui ha insegnato a pescare, è testimone narrativo per i lettori. E poi c’è il pesce. Un grande, grandissimo pesce che dopo una estenuante lotta il vecchio marinaio riesce a vincere. Saranno però gli squali, alla fine, a chiudere la partita mentre per lui resterà solo lo scheletro legato alla barca a testimoniare lotta, vittoria e fallimento, che poi sono i tre temi intrecciati cari a Hemingway da sempre.
Il Vecchio, il Mare e i giorni trascorsi al gran largo dal vecchio pescatore con il suo gigantesco marlin saranno perciò protagonisti delle pagine, scritte nel 1951 e pubblicate da Life nel 1952. Lo porteranno poi al Premio Nobel due anni dopo, settanta anni fa. Ernest Hemingway dichiara subito ai giornalisti che non andrà a Stoccolma a ritirarlo per ragioni di salute. Le ferite dei due incidenti lo condizionano ancora molto e gli stessi medici sono contrari. Dirà anche che lo avrebbero meritato altri scrittori americani prima di lui. Fa i nomi di Carl Sandburg e di Bernard Berenson ma è comunque orgoglioso del Nobel. «Me lo hanno dato», dirà poi scherzando con gli amici «perché è il primo libro in cui non metto una parolaccia». Niente swear words, questa volta, niente dei consueti scandali.
Lo scrittore parla con John Cabot, l’ambasciatore americano a Stoccolma, e gli chiede di andare lui al suo posto e leggere qualche parola che scriverà per ringraziare chi gli ha assegnato il Nobel per la Letteratura del 1954. Settant’anni da allora e chi ama il mare – chi ama la gente di mare e ama lui che il mare lo conosceva bene – non può non ricordarlo. Cabot gli legge la motivazione del Nobel e Hemingway sente che il Nobel gli viene assegnato «per la sua maestria nell’arte narrativa, recentemente dimostrata con Il vecchio e il mare e per l’influenza che ha esercitato sullo stile contemporaneo».
Nel discorso che invia a Stoccolma e che sarà letto, nel corso della cerimonia, davanti a Sua Altezza Reale il Re Gustav di Svezia, Ernest Hemingway sarà breve e spietato sul mestiere di scrivere.
«Quel che un uomo scrive», dirà, «può non essere immediatamente chiaro e per questo, qualche volta, può dirsi fortunato; ma col tempo le sue parole si possono rivelare abbastanza chiare, e grazie a queste parole e al grado di alchimia che lo scrittore possiede, lui potrà resistere al tempo o venire dimenticato. La vita dello scrittore è, nel migliore dei casi, una vita solitaria. Le organizzazioni di scrittori alleviano la sua solitudine, ma dubito che riescano a migliorarne la scrittura. Più diventa conosciuto al pubblico, più perde la sua solitudine, e così, spesso, il suo lavoro ne risente, deteriorandosi. Lui lavora da solo, e se è uno scrittore abbastanza bravo deve essere in grado di affrontare l’eternità, o la sua mancanza, ogni giorno. Per un vero scrittore ogni libro dovrebbe rappresentare un nuovo inizio, dove cercare qualcosa di nuovo, che va oltre la semplice realizzazione. Deve cercare di realizzare qualcosa che non sia già stato fatto, o che gli altri hanno fallito nel tentativo di realizzare. E prima o poi, con grande fortuna, riuscirà nel suo intento. Come sarebbe semplice scrivere se fosse solo necessario riscrivere in altro modo ciò che è stato già ben scritto. Ed è proprio perché abbiamo avuto scrittori così grandi nel nostro passato che uno scrittore deve sforzarsi ad andare oltre, dove nessuno può aiutarlo».
È un uomo solo quello che scrive queste cose. Solo come un pescatore in mezzo al mare, come Santiago quando vede gli squali divorare pezzo a pezzo quel pesce che ha ucciso e con il quale ha costruito un legame di rispetto. Hemingway sa bene che la storia del vecchio e del mare è una delle sue cose migliori. Non a caso, ha già vinto il Pulitzer per questo romanzo un anno prima, nel 1953. Resta però il fatto – e lo dice chiaramente nel suo discorso per il Nobel – che occorre andare sempre più oltre, da soli. Continuerà comunque a pensare al mare fino all’ultimo, da scrittore, con una trilogia – Isole nella corrente – che però lui non vedrà pubblicata.
Il mare di Hemingway è il mare dei pescatori. Le attese, le albe e le notti, gli occhi che cercano il pesce mentre oggi l’elettronica si è sostituita a questo scrutare il mare e i suoi colori, i suoi segnali, che allora era parte fondamentale della pesca.
La sua barca è Pilar e non stupisce che Hemingway ne parli come fosse una cosa viva. «Pilar è stata costruita come una macchina da pesca», racconta lui stesso, «in grado di tenere bene il mare nelle condizioni più difficili, di percorrere almeno cinquecento miglia e di dar da dormire a sette persone. Imbarca nei suoi serbatoi millecentotrentacinque litri di benzina e circa centosettanta litri di acqua. In un viaggio lungo si possono caricare anche altri trecentottanta litri di benzina in piccoli bidoni da tenere nel castello di prora e una identica quantità di acqua in damigiane. Può inoltre portare, una volta caricata al massimo, una tonnellata di ghiaccio. Lo scafo lo hanno costruito i cantieri Wheeler di New York, modificandolo secondo le nostre esigenze, e da allora abbiamo fatto parecchie modifiche. È una barca veramente robusta», conclude palesemente orgoglioso di lei, il suo armatore e comandante «sicura comunque sia il mare, e ha una poppa molto bassa con un gran rullo di legno per caricare a bordo i pesci grossi».
Il vecchio e il mare supera il tempo e lo spazio perché racchiude in sé tante cose insieme. Il legame di un uomo anziano con la sua vita e con chi è più giovane. La pesca per vivere che diventa anch’essa vita, dove uccidere è giusto ma solo e sempre con il rispetto dovuto. Il vecchio rispetta il marlin ma non gli squali che non conoscono regole. C’è poi il legame fortissimo con la sua barca, vecchia anche lei ma ancora solida e sicura. C’è il ragazzino cui ha insegnato a pescare quando era molto piccolo. E poi il silenzio a bordo perché «era considerata una virtù non parlare se non in caso di necessità, sul mare, e il vecchio l’aveva considerata tale e l’aveva rispettata. Ma ora diceva spesso ad alta voce i suoi pensieri poiché non c’era nessuno che potesse esserne disturbato», e poco più avanti Hemingway aggiunge: «Nessuno dovrebbe mai restare solo, da vecchio, pensò. Ma è inevitabile».
Hemingway sa che il «Vecchio», come lo chiama lui, è uno dei migliori libri che ha scritto. Lo sa e lo dichiara. Scrive a Bernard Berenson il 24 settembre 1954: «Si ha sempre l’illusione a proposito dell’ultima cosa che è stata scritta e così ho una fiducia esagerata nel libro del Vecchio. Ogni giorno che scrivevo mi meravigliavo di come andava avanti meravigliosamente e speravo che il giorno successivo sarei stato in grado di inventare sinceramente come avevo fatto il giorno precedente». E più avanti aggiunge: «Ancora oggi non riesco a leggerlo senza emozione e so che lei mi crederà quando dico che non è l’emozione di qualcuno che ammira ciò che ha fatto, perché l’ha fatto, ma perché lo leggevo in modo del tutto distaccato come se fosse stato scritto da qualcun altro morto da tanto tempo». La storia del Vecchio è peraltro storia antica, accaduta in ogni mare, in ogni tempo, dovunque ci siano stati pesci e vecchi pescatori con le loro barche.
In fondo anche oggi, a chi naviga capita spesso di vedere persone con ormai parecchi decenni alle spalle, andare per mare e andarci secondo modi e tradizioni che si rischiano di perdere. Occorre guardare il modo con cui fanno a bordo anche le cose più semplici, come controllano intorno e come sanno con discreta sapienza dare, a bassa voce e nel modo migliore, il consiglio più giusto al momento più giusto. Resta l’immagine negli occhi, quando nei porti ti capita di vedere un nonno che spiega la barca e i suoi misteriosi componenti al nipotino, e le cose da fare e da conoscere e a che serve questo e come funziona quello, ma soprattutto perché.
Si tratta di marinai che hanno cominciato a navigare in un altro mare, in un altro mondo marinaresco, con il compasso o nel migliore dei casi con il Loran. Niente GPS, niente radar, forti ancora oggi della regola antica che quel che c’è non si rompe. Facile trovare ancora, nei tavoli da carteggio delle vecchie barche i taccuini a quadretti con le annotazioni del meteo, dettate dalla radio di bordo con la voce lenta e precisa di chi sa che deve farsi capire bene. Gli strumenti allora erano quel che erano, cioè semplici accessori perché per quelle generazioni restava fondamentale utilizzare l’intelligenza guidata dall’esperienza, quando si andava per mare.
Il nonno spiega dunque al nipote cos’è la barca e come si naviga ma soprattutto cerca di fargli comprendere cosa rappresenta il mare per lui. Ti rendi conto allora, mentre li guardi dalla banchina senza farti troppo notare, che sei di fronte a un fenomeno antico e eterno. Riaffiora allora da un angolo della memoria la voce di Antoine de Saint-Exupéry che parla della sua nave. Se vuoi costruire una nave – ripete da decenni quella voce – non devi chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi né distribuire i compiti o organizzare il lavoro, ma insegna loro soltanto la nostalgia del mare ampio e infinito.